Dopo quasi vent’anni di assenza – trascorsi, forse colpevolmente, a indagare architetture in luoghi più distanti del pianeta – sono ritornato a Urbino, alla ricerca non soltanto delle opere di Giancarlo De Carlo (e di tutti gli illustri architetti che lo hanno preceduto nella città di Federico da Montefeltro) ma anche della possibilità di fare un personalissimo punto sullo stato dell’architettura. Avevo sentito parlare da più parti del pessimo stato di conservazione degli edifici di De Carlo, in particolare del vecchio Magistero affacciato sulla valle; ma visitarlo di persona è stato indispensabile per rendermi conto di come stiano veramente le cose.
Le voci non mentivano. L’edificio è, per certi versi, al limite dello sgretolamento: mentre il paramento murario sul fronte urbano resiste egregiamente, testimonianza della superiorità (almeno in questo) del laterizio quale materiale da costruzione inteso per durare nel tempo, i volumi interni, realizzati in calcestruzzo, mostrano con veemenza tutti quei segni di degrado che difficilmente potevano essere nelle intenzioni di De Carlo. Copriferro saltati, ferri esposti all’aria a ossidarsi, infissi mangiati dalla ruggine, vetri infranti sostituiti da tavole di legno se non addirittura cartoni da imballaggio, arredi scoordinati fra loro sparpagliati senza cura negli spazi interni dell’edificio, peraltro deserto dato che ho scelto – improvvidamente? –come giorno per la mia visita il Venerdì Santo. Soltanto uno svogliato custode, rannicchiato nella garitta all’ingresso dell’edificio, dormicchiava nel pomeriggio soleggiato di aprile. Come su un tavolo appena sparecchiato dopo una cena con molti convitati, le tracce dell’uso raccontano la storia di quanto intorno a quella tavola – dentro quell’edificio – avviene nella quotidianità. Facile individuare alcuni “errori” progettuali: le aule organizzate intorno al celebre emiciclo erano surriscaldate, benché all’esterno soffiasse una tramontana tesa; si può senz’altro immaginare il disagio estivo che ha portato a tamponare alla meno peggio molte parti della serra vetrata. La curvatura stessa delle aule non promette di realizzare la migliore visibilità per gli studenti. Un certo carattere labirintico, pur nella struttura non particolarmente ampia, conduce a facili smarrimenti. Come in una personalissima Tintern Abbey, ho dunque ripercorso, mentre attraversavo i corridoi desolati del Magistero, la mia immagine mentale, archiviata durante una visita effettuata quando ero ai primi anni della Facoltà di Architettura. In quella prima occasione avevo stentato a comprendere la complessità di uno spazio architettonico fortemente articolato, mai prevedibile, distante anni luce da qualsiasi caratterizzazione estetica convenzionale. Ricordavo esattamente la sensazione di degrado, meno accentuata ma già chiaramente leggibile negli anni Novanta, sintomo certo non di un’architettura di scarsa qualità, bensì di un’istituzione – l’università pubblica – generalmente incapace di prendersi cura di se stessa, del proprio patrimonio, anche se “di pregio”, dei propri luoghi più rappresentativi. Eppure, di là di queste analogie “epidermiche”, ho dovuto constatare quanto fosse diverso il Magistero che avevo visitato negli anni Novanta rispetto a quello visto oggi. Non per quelle marginali differenze legate al passaggio del tempo e ai suoi effetti sulla materia costruita, quanto per la trasformazione subita, in questi due decenni, dal soggetto che ne abitava lo spazio: io. Benché sempre visitatore occasionale e non utente abituale, l’esperienza accumulata in due decenni – di luoghi e architetture visitati, libri letti, incontri, discorsi, ragionamenti percorsi e ripercorsi – mi hanno condotto a osservare lo stesso luogo come se fosse un altro: a riprova del fatto che la consistenza fisica di un’architettura non è che parte – per quanto fondante – dello spazio reale che noi abitiamo in qualità di soggetti complessi. Dell’opera di Giancarlo De Carlo, al tempo, conoscevo ancora meno che ora (anche qui: colpevole negligenza); avevo letto della sua idea di architettura partecipata, immaginandomi l’architetto seduto con i futuri residenti del Villaggio Matteotti intorno ad un grande tavolo, intento ad ascoltarne i desiderata. La mia visione ingenua era esattamente questa: un architetto che prende appunti su un quaderno, non diversamente da un cameriere che registra una comanda, poi la riporta al cuoco in cucina (se stesso) ed “emana” un progetto di architettura perfettamente rispondente a quanto ordinato dagli utenti, o, tutt’al più, opera maieuticamente rispetto a loro. Beata gioventù. Mi domando oggi se quella mia naïveté fosse dettata dall’ignoranza, dall’inesperienza, dalla terrificante superficialità di buona parte dei miei docenti nella Facoltà di Architettura, ovvero da un letale cocktail di questi ingredienti. Architettura della partecipazione non è certo una progettazione “a chiacchiere”, un processo nel quale un architetto meno autoritario di altri si sottomette alla volontà draconiana di utenti che hanno (finalmente) riconquistato la “voce in capitolo” loro da troppo tempo negata. Non è certo un la bistecca la preferisco ben cotta: nulla di tutto questo si trova fra le mura del Magistero decarliano, e quest’assenza spiega – o almeno mi spiega – il perché della mia confusione da giovane studente. Architettura partecipata è, ad esempio, l’assenza di corridoi, disimpegni o qualsiasi altra forma di distribuzione convenzionale: spazio democratico, non gerarchizzato, nessuna separazione o filtro si pongono fra i ruoli di chi insegna e di chi apprende, nessuna simbolica “iconostasi” a impedire la vista del rito che si svolge lontano dagli occhi dei non iniziati. Spazio non-sacro. Tutti gli ambienti aprono su un unico, magmatico connettivo abitato, di dimensioni, illuminazione e qualità tali da divenire esso stesso spazio di uso, di permanenza, non soltanto di meccanico transito. Lo spazio è di tutti, non soltanto di alcuni: tutti ne partecipano, in un’interferenza di percorsi, attività ed eventi che enfatizza l’entropia rispetto all’ordine, l’autoregolamentazione dei sistemi rispetto all’autoritaria imposizione di forme di utilizzo. Come se in un hôtel particulier parigino del XVIII secolo scomparissero il poché, le scale nascoste nello spessore delle pareti, la separazione fra lo spazio dei signori e quello dei servi. Architettura partecipata è anche la naturalezza con cui il vecchio Magistero tollera la sua trasformazione “spontanea”. Molti degli arredi originali sono stati sostituiti, spesso con altri poco adeguati, assolutamente non estetici, comprati da tristi cataloghi di forniture per la pubblica amministrazione maneggiati da persone che hanno difficoltà a distinguere un quadrato da una circonferenza. Eppure gli spazi sembrano funzionare comunque, perché non sono perentori, non impongono troppe geometrie o verità splendenti. Trasformazione dunque sì: ma non degrado, bensì tracce d’uso, di nuovo come sulla tovaglia di un pranzo appena sparecchiato. Degrado è altra cosa – basta fare una passeggiata per le aule della Facoltà dove insegno – e non ho potuto che confrontare questo luogo universitario con un altro, molto lontano, molto diverso: la Crown Hall di Mies all’IIT di Chicago, che ho visitato prima dell’intervento di riqualificazione conclusosi nel 2005. Il limpido parallelepipedo miesiano era intatto nella forma, ma soltanto nella forma, perché lo spazio interno era occupato, costretto, sporco, modificato, addirittura usato. Che blasfermia: usare uno spazio di Mies. Mies non lo puoi usare, al massimo lo puoi contemplare. Il Magistero di De Carlo lo puoi tranquillamente usare, e se proprio senti l’urgenza di contemplare qualcosa ti affacci fuori dall’emiciclo e ti bei di un panorama mozzafiato. Infine, un fatto che potrà sembrare quasi scontato, ma a mio avviso non lo è: l’ultima aula nell’emiciclo, liberata dall’attività didattica, è stata ceduta in gestione agli studenti, che vi hanno realizzato uno spazio di incontro, una piccola biblioteca/sala riunioni/spazio fumatori/lounge: la Libera Biblioteca De Carlo. Il tipico luogo del “dissenso”, colmo di poster, slogan e mozziconi di sigarette, necessario per tutti gli studenti alla ricerca di una propria collocazione culturale al di fuori benché dentro uno spazio istituzionale. Il riconoscimento tributato da questi giovani a Giancarlo De Carlo è quanto mai sintomatico: non è forse l’architetto, in genere, espressione del potere consolidato, della struttura capitalista? Potreste immaginare uno spazio occupato nella storica facoltà di Valle Giulia a Roma dedicato dagli studenti a Enrico Del Debbio? O un’aula ad Arcavacata dedicata a Vittorio Gregotti? La verità – forse banale – che emerge dal nome attribuito dagli studenti al loro spazio “libero” è che non tutti gli architetti sono uguali: c’è chi progetta per l’arte, chi per la causa, chi per la gloria, chi per se stesso, chi per le persone. Quando quest’ultima condizione si verifica – come nel caso di De Carlo – le persone stesse, in genere, si accorgono della differenza. Ma al di là di elogiare le opere di Giancarlo De Carlo, la cui qualità è tanto evidente da trascendere – e per una volta non in forma canzonatoria – il ristretto club degli architetti vestiti di nero, per essere comprese lì dove si ragiona anche di altro, mi preme osservare quanto sia importante il dare spazio al soggetto: sia quando si prefigura l’architettura, sia quando la si descrive. Condizione fondamentale, questa, per non rimanere intrappolati nell’autoreferenzialità della forma, del disegno perfezionato, del manierismo di sé o di altri, dei metodi che promettono scientificità. Per dare spazio a quella prospettiva, invocata dallo stesso De Carlo, di «sottrarre l’architettura agli architetti, per restituirla alla gente che la usa» (1).
FDM Aprile 2015
Note (1) DE CARLO G., L’architettura della partecipazione, Macerata, Quodlibet, 2013, p. 60.
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