Sacro GRA
Uno sguardo al paesaggio attraverso storie di margine
Cristina Sciarrone
«Cosa maschera e nasconde l’immagine d’ordine (forse un po’ angusta) del GRA?»(1) Così scriveva Renato Nicolini in un suo articolo dedicato all’ “anello di saturno” (2) che circonda la capitale e che è reso oggi ancor più celebre grazie al film di Gianfranco Rosi, vincitore del Leone d’Oro alla 70° Mostra del Cinema di Venezia. Ed è forse questa la domanda a cui il regista ha cercato, a suo modo, di dare una risposta girando un film documentario su quella che potrebbe essere considerata la parte di Roma in cui maggiormente si rivelano le contraddizioni di una grande metropoli contemporanea: urban sprawl (3), segregazione sociale, grandi strutture commerciali che rappresentano i non-luoghi (4) per eccellenza, spazi del rifiuto, campagne urbane che resistono come isole superstiti delle distese agricole di un tempo.
Sacro GRA è un film sorprendente, che si presta a molteplici interpretazioni e che non è stato esente da critiche. Una, in particolare, denunciava un’assenza: quella del paesaggio. Chi si aspettava di vedere un film sul paesaggio urbano della periferia romana a ridosso del GRA ne sarà certamente rimasto deluso. Perché in realtà il regista, coadiuvato da colui che è il vero promotore del progetto, il paesaggista Nicolò Bassetti, ha interpretato il tema del racconto del territorio romano lungo il GRA in maniera del tutto sorprendente: egli ha umanizzato il paesaggio. Ciò significa che esso viene rappresentato attraverso la componente sociale che vive in questi luoghi marginali della città eterna. È un racconto sensibile, costruito attraverso le parole e i gesti di persone comuni che, con semplici azioni, contribuiscono a creare il proprio “paesaggio del quotidiano”. Grazie alla successione di questi piccoli frammenti della loro vita, che il regista riesce a cogliere con estrema attenzione, lo spettatore può immaginare mentalmente gli spazi reali in cui tali individui si muovono. Il film nasce da un’idea di Nicolò Bassetti, che, trasferitosi da Milano a Roma, rimane sconcertato dalle emozioni suscitate in lui dal raccordo. La sensazione di spaesamento, accompagnata da condizioni personali emotive particolari e dalla lettura di testi particolarmente illuminanti, ha dato il via ad un progetto di esplorazione urbana che Nicolò ha compiuto con grande dedizione, percorrendo con estrema lentezza 300 km a piedi e realizzando un’operazione psicogeografica di deriva (5) urbana. In questo senso, l’esigenza di Nicolò di ricostruire un rapporto con un territorio a lui sconosciuto nasce forse dalla sensazione di spaesamento (6) da lui provata e porta ad una necessaria realizzazione spaziale (7) di questi luoghi. L’unico modo per raggiungere questo obiettivo è rappresentato dall’atto del camminare: attraversando questi luoghi a piedi e osservando il paesaggio attorno a sé, egli costruisce una vera e propria mappa psicogeografica che parla sì di luoghi ma anche di persone e di vita vera, quotidiana. Gianfranco Rosi interpreta magistralmente l’idea di Bassetti: durante il film, raramente incontriamo il paesaggio. Più semplicemente, lo possiamo immaginare attraverso le parole e i comportamenti delle persone che realmente in quel paesaggio si muovono. Così, spostandosi da uno spazio di attraversamento veloce (il GRA) verso le pause della vita quotidiana, si possono incontrare strani personaggi, ognuno dei quali rappresenta un tassello fondamentale per l’operazione di ricucitura di un territorio frammentato come quello della periferia romana: Cesare l’anguillaro, che ci parla del paesaggio d’acqua per eccellenza, il fiume, la sua principale fonte di sostentamento e ragione di vita; il nobile decaduto Paolo, che ci racconta un paesaggio sociale fatto di paure e incertezze sul futuro; il palmologo che, con grande dedizione, combatte la sua guerra personale con il punteruolo rosso, raccontandoci di un paesaggio naturale che sembra impensabile all’ombra di una infrastruttura come quella del GRA e che sta a poco a poco scomparendo a causa di un vero e proprio virus che lo attacca dall’interno; il principe Filippo che vive nella sua villa con moglie e figlia ostentando la sua ricchezza e costruendo un paesaggio falsato, simile ai non-luoghi dei grandi parchi di divertimento realizzati nel nulla in tutto il mondo; il paramedico che, muovendosi sulla sua ambulanza, ci parla di un paesaggio notturno, in movimento, fatto di suoni, immagini sfocate, luci e ombre. E ancora, gruppi sociali emarginati, chiusi nella propria segregazione e nelle proprie tradizioni, gli unici in grado di vivere gli spazi alienanti dei grandi quartieri periferici a ridosso del Raccordo, di cui si appropriano per trovare momenti di socialità e convivialità sulle note di balli latinoamericani che riecheggiano nei vuoti lasciati tra i grandi edifici della periferia romana. E si rivelano così tutte le ambiguità e i fenomeni di margine che caratterizzano oggi le città contemporanee. Il film parla in realtà di un confine, quello tra città e campagna, che, lungi dall’essere segnato dalla presenza del GRA, appare oggi più che mai smarginato, sgretolato. I fenomeni che il regista riesce a mettere in scena con grande acutezza e leggerezza sono quelli tipici di questi spazi di margine: ghettizzazione, esclusione sociale ed economica, ma anche voglia di costruire un legame identitario con i luoghi del quotidiano, attraverso fenomeni di appropriazione degli spazi. Il Grande Raccordo Anulare diventa un espediente narrativo, appare sfocato sullo sfondo come un limite che non è limite, ma spazio di transizione, in cui tutte le differenze sociali vengono portate alle estreme conseguenze e si riflettono nel contesto spaziale circostante. Dal tragitto lungo la strada si dipanano le diverse uscite con le relative indicazioni. E si apre un mondo. E quale modo migliore per parlare di un luogo del genere se non quello di esplorare, toccare con mano, provare a creare delle mappature sociali e, in ultima analisi, raccontare il paesaggio urbano attraverso i gesti, le parole e gli sguardi di coloro che ne costituiscono la componente sociale? Il film non ha colonna sonora, lo spettatore ascolta quelli che sono i rumori tipici di luoghi a ridosso di una tangenziale. Le ultime immagini, però, sono accompagnate dalle note della canzone di Lucio Dalla, “Il cielo”, che sembrano suggerire un barlume di speranza, e che richiamano alla mente uno dei fotogrammi che si incontrano durante i 93 minuti di film: un prete francescano, munito di macchinetta digitale, sul bordo della strada, incurante dello scorrere incessante delle auto, fotografa il cielo e la sua immensità, che sovrasta indistintamente questi paesaggi dell’ordinario, così miseri ma così veri.
Note (1) Renato Nicolini, nel suo articolo “Una macchina celibe”, descrive il GRA come un’immagine preformata, luogo della rappresentazione, un tentativo, malriuscito, di restituire alla città il limite che una volta era rappresentato dalla cinta muraria. La tesi sostenuta da Nicolini è che il raccordo, in realtà, assume un ruolo decisivo nel nascondere le contraddizioni della città contemporanea, che diventano particolarmente evidenti nelle sue aree di bordo, frammentate, eterogenee, disordinate e mutevoli. (2) «Il Grande Raccordo Anulare circonda la città come un anello di Saturno». Federico Fellini, nel suo storico film Roma del 1976, così descrive il GRA, allorquando cerca di immaginare come possa apparire la città eterna a chi vi arriva per la prima volta in macchina, dall’autostrada. E guardando le scene del film si scopre una straordinaria somiglianza tra certe scene e quelle che ancora oggi potremmo osservare percorrendo un tratto di questa autostrada urbana. (3) La città diffusa, denominata sprawltown dallo storico dell’urbanistica Richard Ingersoll, è un fenomeno ormai attuale e caratteristico del paesaggio urbano contemporaneo. (4) Per Marc Augè i non luoghi sono spazi in cui la «vocazione principale non è territoriale, non è di creare identità individuali, relazioni simboliche e patrimoni comuni, ma piuttosto di facilitare la circolazione (e quindi il consumo) in un mondo di dimensioni planetarie». (5) La “deriva” è una pratica di esplorazione urbana, sviluppata alla fine degli anni Cinquanta come tecnica psicogeografica dal gruppo dell’Internazionale Situazionista. Guy Debord, uno dei suoi principali esponenti, nel suo Théorie de la Dérive, così scrive «Per fare una deriva, andate in giro a piedi senza meta od orario. Scegliete man mano il percorso non in base a ciò che sapete, ma in base a ciò che vedete intorno. Dovete essere straniati e guardare ogni cosa come se fosse la prima volta. Un modo per agevolarlo è camminare con passo cadenzato e sguardo leggermente inclinato verso l'alto, in modo da portare al centro del campo visivo l'architettura e lasciare il piano stradale al margine inferiore della vista. Dovete percepire lo spazio come un insieme unitario e lasciarvi attrarre dai particolari». (6) Franco La Cecla, nel suo Perdersi: l’uomo senza ambiente, scrive: «[Perdersi] può consentire quel fuor di luogo per cui siamo costretti a ricostruire i nostri punti di riferimento, a misurarci e a ridefinirci rispetto ad un altro contesto. In questi casi il nostro riambientamento ci consente di “apprendere ad apprendere”, riattiva cioè un’interazione tra noi e l’ambiente». (7) Paola Viganò, nel suo La città elementare, paragona l’atto del camminare ad una «processo di appropriazione della topografia, una realizzazione spaziale del luogo». L’esplorazione diventa un metodo d’indagine ottimale per i territori frammentati e disordinati della contemporaneità.
Autore |
Data pubblicazione |
Volume pubblicazione |
SCIARRONE Cristina |
2013-11-05 |
n. 74 Novembre 2013 |
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